Un altro memorabile Cechov. Firmato Eimuntas Nekrosius. Dopo la trilogia scespiriana accolta da ovazioni nella rassegna del Teatro di Roma "Europa 2007", l'accoglienza trionfale si è ripetuta con "Il Giardino dei ciliegi", allestito questa volta non con i fedelissimi della sua compagnia, ma per la prima volta con attori russi. La sua versione è un ulteriore affondo nell'universo del grande scrittore russo (dopo "Tre sorelle", "Zio Vania" e "Ivanov") che illumina il celebre testo con acutezza, inesauribili ricchezza e possibilità espressive. Che sa scavare ancora nelle parole, smembrarle e dilatarle, per rivelare nuove immagini e inedite azioni sceniche.

La crisi dell'aristocrazia russa dell'inizio secolo è condensata nel giardino del titolo che alla fine viene tagliato e messo all'asta, perché non abbastanza redditizio, per far posto a tanti lotti per case di villeggiatura. In quel crocevia esistenziale di destini che si incrociano, sempre in attesa di una vita migliore, ma dove gli amori non si incontrano mai, torna la proprietaria Ljuba dopo anni di dissipazione all'estero per ritrovare parte della sua famiglia. Pressata dai debiti è costretta a vendere la tenuta. La comprerà Lopachin, l'ex servo figlio di contadini, il solo a conoscere la realtà del lavoro e il valore del denaro. La lottizzerà mentre qualcuno prospetta un'utopica Russia nuova.

Nekrosius colloca il frutteto del titolo sul fondo della scena, rappresentato da una selva di aste con in cima piccole eliche da vento. Prenderanno vita nel finale, mosse da un leggera vibrazione prodotta dalle mani di tutti i personaggi nascosti dietro di esse, e mascherati con orecchie da conigli, ad osservare nel buio l'unico supersite della casa: il vecchio servo Firs, con una candela in mano, dimenticato da tutti quando tutti partono. Egli rappresenta il passato, la tradizione, il depositario di una memoria che si vuole annullare. Con lo stesso personaggio s'era aperto lo spettacolo, sipario a metà, impegnato a togliere dallo schienale di una sedia i numerosi cappotti infilati l'uno dentro l'altro. Costumi di scena che verranno indossati da lì a poco all'arrivo dei protagonisti, quasi a ricordarci che siamo pur sempre dentro una rappresentazione. Dei sentimenti, e della vita. Di essa il regista lituano è geniale indagatore, simile ad un investigatore che sul luogo del delitto cerca di scoprire tracce non visibili ma che esistono già, presenti nel testo, nella trama, nei personaggi. Così, dietro ogni parola egli vi scopre associazioni e allusioni tradotte poi, con potenti figurazioni simboliche e altrettanta forza visionaria, nel corpo degli interpreti. C'è una scalinata trasportabile dalla quale cadrà lo studente Trofimov vestito da bambinone, due anelli da ginnastica sospesi dove rifugiarsi aggrappandosi ad essi, un cumulo di rami secchi al centro per un falò che prelude alla scomparsa degli alberi e del quale udremo solo il crepitio. E di altri suoni naturali è carico, com'è consuetudine, il tessuto sonoro, accompagnato da costante ondate di musica (composta da Mindaugas Urbaitis), meravigliosa nella sua drammaturgia, con citazione dalla marcia funebre della Sinfonia n.1 di Mahler.

Ogni invenzione, ogni movimento, ogni azione, ogni silenzio e pensiero, si caricano di senso. I protagonisti cercano di eludere il dramma sotteso in ciascuno – e lo sgomento della morte - assumendo un'aria briosa, spesso nevrotica, tenendosi a volte per mano a formare un allegro semicerchio, illudendosi nel contatto fisico di essere forti e sicuri. Nekrosius lascia spazio al gioco: come quello di prestigio ingaggiato da una delle figlie; o delle caramelle distribuite a mucchi sul tavolinetto dallo zio che ammette: «Dicono che mi sia mangiato l'eredità in caramelle»; o del cerchio di sedie saldate insieme e fatto girare come una giostra. Questa si fermerà al sopraggiungere della notizia che il giardino sarà venduto. E Ljuba, per trattenere il dolore, immobile stringe il fazzoletto tra i denti. In una strepitosa sequenza racconta dei suoi "peccati" sdraiandosi e alzandosi ripetutamente da una striscia di carta per terra, e rovesciando le sedie con furore.

Si respira una sofferenza palpabile, una nitida brillantezza di sentimenti pur nell'atmosfera cupa che avanza, pervasa però da un ritmo dinamico e di euforia. Soprattutto comico. Che sfronda qualunque cechovismo di maniera il quale vorrebbe l'autore russo rappresentato con lentezza e con i personaggi immersi nella noia del vivere. Ma la comicità prelude all'infelicità e ai risentimenti, alla nostalgia e agli svelamenti che costringono a guardare dentro se stessi. Insomma, comico e tragico fusi mirabilmente per illuminare la condizione dell'uomo. Passato presente e futuro si uniscono e ci restituiscono fantasmi, apparizioni di esseri sradicati da qualsiasi luogo, caricature di un'umanità che, rischiarata da una livida luce, cerca, smarrita, un raggio di calore umano. Quello col quale, il geniale maestro della scena e il magnifico gruppo di attori, ci trafiggono.


"Il giardino dei ciliegi" di Anton Cechov, regia di Eimuntas Nekrosius, scene e costumi di Nadezda Gultiajeva, musiche Mindaugas Urbaitis, produzione Zeinab Seid-Zade per la Fondazione Internazionale Stanislavsky, Mosca, e Meno Fortas, Vilnius. Roma, Teatro Valle.

 

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